"Siamo arrivati ad Ancona dopo 5
giorni di navigazione in cui le condizioni meteo non sono state
sempre favorevoli, in particolare nelle prime 48 ore abbiamo
avuto onde di quasi due metri", è quanto ha dichiarato Laura
Pinasco, comandante della Life Support di Emergency spiegando
che i naufraghi sono stati assistiti dal nostro personale
medico, finalmente "sono sbarcati a terra e sono al sicuro, non
possiamo che augurare a tutti il meglio per la loro vita
futura". Lo sbarco delle 34 persone soccorse dalla nave Life
Support di Emergency, nel porto di Ancona, è avvenuto alle 08:55
di stamani. I naufraghi, che viaggiavano su un gommone, erano
stati portati in salvo il 12 dicembre con un intervento nelle
acque internazionali della zona Sar libica. I naufraghi, tutti
uomini e un minore non accompagnato, erano partiti dalle coste
libiche e provengono da Afghanistan Pakistan e Sudan, Paesi
devastati da conflitti armati, instabilità politica, povertà e
crisi climatica.
"Molte delle persone soccorse fuggono da conflitti che
impediscono loro di rimanere nel proprio Paese - dice Chiara
Picciocchi, mediatrice culturale a bordo della Life Support -.
Un ragazzo del Pakistan ci ha raccontato che viveva in una zona
dove ci sono molti conflitti e c'è una fortissima povertà,
motivi che lo hanno spinto a intraprendere il viaggio verso
l'Europa. Una volta arrivato in Libia "ha tentato la traversata
del Mediterraneo due volte, la prima volta è stato intercettato
e portato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera tunisina,
ma è riuscito a tornare in Libia e a tentare una seconda
traversata. Questa volta è stato soccorso dalla Life Support,
ora il suo desiderio è vivere in Italia, trovare lavoro e farsi
raggiungere dalla sua famiglia". "Vengo da Parachinar, in
Pakistan, una città al confine con l'Afghanistan - ha spiegato
un ragazzo di 23 anni a bordo -. Negli ultimi anni la mia città
è stata bersaglio di molti attacchi terroristici, non è un luogo
sicuro dove vivere. Le scuole sono chiuse, gli ospedali non
hanno gli strumenti per operare, c'è solo una strada che collega
la città con il resto del Paese e viene spesso bloccata,
fermando quindi l'arrivo di viveri e scorte mediche anche per
settimane. Per me - è il suo racconto - era impossibile vivere
così, non mi sentivo al sicuro, dovevo andarmene. All'università
ho studiato optometria ma non riuscivo a trovare lavoro, non
riuscivo a sostenere la mia famiglia, anche per questo ho deciso
di partire. Ho lasciato il Pakistan 4 mesi fa e da lì sono
andato prima a Dubai e poi in Egitto, infine ho preso un aereo
per Bengasi, in Libia, dove mi aspettavano delle persone in
macchina - prosegue -. Mi hanno portato a Tripoli, ma nei tre
mesi che ho passato in Libia ho cambiato molte città. I
trafficanti con cui ero ci picchiavano e ci facevano mangiare
solo un pezzo di pane al giorno con un po' di acqua. La prima
volta che abbiamo provato ad attraversare il mare, un drone
delle milizie libiche ci ha trovati prima che salissimo sulla
barca e siamo dovuti scappare via perché sarebbero venuti a
prenderci. Dopo abbiamo aspettato ancora un mese, questa è la
seconda volta che ho provato a fare il viaggio". "Quando
abbiamo pagato, in Pakistan, ci avevano promesso una bella
barca, dotazioni di sicurezza e attrezzatura per navigare.
Invece - ha spiegato inoltre - quando siamo arrivati in spiaggia
abbiamo visto che avremmo fatto il viaggio su un piccolo
gommone, senza giubbotti salvagente, con pochissimo cibo e solo
5 bottiglie d'acqua per più di 30 persone. Non volevamo salire:
era troppo pericoloso, eravamo in troppi e la barca era troppo
piccola, ma i libici ci hanno costretti a farlo. Per fortuna ci
avete trovati, non so quanto avremmo resistito senza il vostro
aiuto".
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