DOVLATOV - I LIBRI INVISIBILI del regista russo Alexej German Jr è un film che si prende i suoi tempi e non corre.
Proprio come la vita del suo protagonista, Sergei Dovlatov (Milan Maric), poeta tutto di un pezzo pieno di fallimenti e rifiuti, un artista censurato all'epoca, ma riconosciuto solo dopo la sua morte, a 48 anni, come una delle voci più rappresentative della letteratura del XX secolo.
Vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino nel 2018 per il suo "straordinario valore artistico" e ora in sala dal 4 novembre (giorno in cui si celebra l'Unità Nazionale Russa) con Satine Film, uno dei molti pregi di questo film è la ricostruzione bohémien della Leningrado degli anni '70. DOVLATOV - I LIBRI INVISIBILI racconta solo sei giorni della vita del disincantato scrittore che, insieme all'amico poeta Joseph Brodskij (Artur Beschastnyy), ha lottato tutta la vita per salvaguardare il proprio talento e la propria creatività. E questo in un contesto culturale - siamo nella Russia Sovietica - in cui contava solo l'aderenza ai valori di partito, insomma l'essere organici a un potere che viveva di propaganda. Un contesto che sia lui sia Brodskij (insignito in seguito del Premio Nobel per la Letteratura), si sarebbero presto lasciati alle spalle per fuggire alla volta dell'America, dove Dovlatov morirà a soli 48 anni e ancora del tutto sconosciuto.
Che si vede nel film? Il girovagare di Dovlatov, tra redazioni e possibili editori, alla ricerca di un lavoro che non arriva mai per la sua incapacità di accettare anche il più piccolo compromesso; il rapporto mai davvero chiuso con la moglie con la quale ha una figlia adolescente e soprattutto una sorta di Beat Generation russa composta dai suoi amici, scrittori, pittori, poeti e cantanti tutti alla ricerca, oltre che di alcol da bere, di un successo che non arriva mai. Tutti artisti che guardano appunto a quella Beat Generation, da Kerouac a Ferlinghetti, che trasuda libertà creativa.
Dice Aleksej Alekseevič German - già vincitore del Leone d'Argento - Premio speciale per la regia alla 65ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con SOLDATO DI CARTA: "Gli scritti di Dovlatov non possono certo essere trasferiti sullo schermo. Quello che ha scritto di se stesso era come una favola, a volte divertente, a volte triste, a volte tragica, e non puoi fare un film da una favola. Dovlatov è un po' come Charlie Chaplin, nel senso che c'erano due Chaplin: quello sullo schermo, il satirico e divertente con il cappello, e il Chaplin nella vita reale. Quindi ho scelto la strada difficile e ho inventato l'intera storia, il che significa che l'80% di ciò che vedi nel film è fittizio. Ma naturalmente - continua German - ho mostrato anche fatti reali: la sua povertà, il suo lavoro che non viene pubblicato e tutta l'atmosfera che lo circonda". E ancora il regista: "Le persone erano più complicate allora, nel senso che vedevano il mondo in un modo più complesso di quanto non facciano oggi. Era il periodo successivo alla guerra e anche la comunicazione avveniva in modo molto diverso - non c'erano i social media - quindi le persone erano più mature e percepivano il mondo in un modo più profondo".
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