La stagione teatrale romana sembra concludersi nel nome di Pasolini e, dopo il ''Vantone'' con Ninetto Davoli e il bel ''Porcile'' proposto da Valerio Binasco, ecco in scena due nuove produzioni,''Pilade'' con regia di Daniele Salvo al Vascello (sino al primo maggio) e il raro, impegnativo ''Calderon'' con regia di Federico Tiezzi all'Argentina (sino all'8 maggio), nuova produzione del Teatro di Roma e del Teatro di Toscana.
Il teatro di Pasolini ci assale ogni volta, ogni volta che lo si incontra in scena, e ci sorprende per quella capacità di sovrapporre inquietudini moderne e strutture dagli echi classici, per il suo saper rompere con quanto di regole la drammaturgia è andata costruendo e per la sua forte e esemplare vena autobiografica e ideologica, che è poi quella di tutta la sua opera.
Tutto questo non rende semplice la messinscena e spesso la fruibilità dei suoi drammi.
Il problema principale è che ci si trova quasi sempre di fronte a una sorta di eccesso di parole, che non si sostanziano spesso in forma di dialogo drammaturgico, ma è come fossero una fluida corrente che si rivolge direttamente allo spettatore: è come gli attori le incarnassero e ne fossero agiti, per rendercele vive per quel che è possibile. In ''Calderon'' questa corposa verbosità è presente più che in tutti gli altri suoi lavori, e il testo inoltre è come divenisse alla fine una sorta di monologo della protagionista Rosaura, è lei che conduce, ci racconta e vive l'invenzione che Pasolini ha creato ispirandosi a ''La vita è sogno'' di Caderon de la Barca. Tiezzi, che il testo ha appena ritoccato e tagliato assieme a Sandro Lombardi, questo lo ha colto e vi ha puntato per dare una non facile teatralità al suo spettacolo, legandolo al punto di vista di Rosaura, che si scinde in tre personificazioni nei tre sogni che vive e che sono espressione della sua condizione borghese: una giovane che senza saperlo si innamora del padre; una prostituta trentenne che scopre di essere andata col figlio; una donna matura e sposata che si si risveglia dal torpore della sua condizione nell'incontro con un idealista contestaore del 1968.
L'importante, per Pasolini, come ci vine detto, è ''non confondere la condizione borghese con la realtà''. Il tema è quindi lo spaesamento assoluto, il non ritrovarsi in una vita e condizione borghese che sono una sorta prigione, ed è il sentimento principale di Rosaura che solo nel sogno si riconosce e ritrova, perché a quella condizione esistenziale, sociale e culturale non si sfugge. Ad ogni risveglio non riconosce il suo letto, la sua stanza, sua sorella, in ogni sogno accetta l'altro, il diverso e vi entra in sintonia, amorosa o di visione del mondo che sia, come in un rifiuto dell'omologazione, della normalità, e nel riconoscimento del diritto a essere diversi. Così anche il sogno finale, quello con i cortei studenteschi e operai che sembrano arrivare nel segno della libertà e del cambiamento radicale, e che ancora la inebria al risveglio, si scontra col principio di realtà, con l'uomo padre-marito-psicanalista che le ricorda come di un bel sogno, ma appunto di sogno si tratti. C'è una valenza ideologica che Tiezzi traduce il più possibile in sentimento esistenziale per darle credibilità e sottrarla a una visione altrimenti un po' datata. Dal sistema, dalle sue capacità camaleontiche, che cambiano col modificarsi dei sistemi di produzione, non c'è via di fuga: siamo priginieri del ''lager in cui viviamo''. E perchè questo sia il più chiaro possibile, il tutto si dice vissuto sotto il fascismo della Spagna franchista. Tiezzi, che ambienta tutto sempre nello stesso luogo, sorta di stanzone tra convento e prigione (firmato da Gregorio Zurla), cambiando solo i pochi, essenziali pezzi d'arredamento, e costruisce uno spettacolo che sembra avere il segno secco di un'incisione di Goya, nitido e senza orpelli, in cui la parola appunto risalta tutta, ha affidato a tre diverse, assolutamente credibili attrici i tre sogni di Rosaura: Camilla Semino Favero, Lucrezia Guidone e Debora Zuin. Con loro, oltre alla sorella Stella di Arianna Di Stefano e lo studente di Josfat Vagni, c'è un ottimo Graziano Piazza in due parti e un imperdibile Francesca Benedetti nei panni di Donna Lupe, ma a far da filo rosso, da prologo e da figura che impersona la spietatezza del potere in tutte e tre le occasioni, ecco Sandro Lombardi che rende fisico quel flusso fluido e corposo, quel rivolgersi allo spettatore, quella pomposità che è in quei panni (creati da Giovanna Buzzi e Lisa Rufini), che come tutti quelli degli altri, portano in sè un evidente, ricordo della Spagna di Velazquez, le cui Meninas, ritratto della famiglia di Filippo IV con autoritratto del pittore, sono citate da Pasolini, quasi a sottolineare come il testo sia specchio anche dell'autore.
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