ANALISI Il soglio e la poltrona
02 aprile, 18:04di Giovanna Chirri
In un mondo in cui tanti si accapigliano per il potere e quasi nessuno molla una poltrona, un mite e grande intellettuale tedesco lascia, con laicissimo understatement e cristiana fortezza, l'incarico di "capo" di oltre un miliardo di persone. Benedetto XVI, dalla finestra su piazza San Pietro, - della quale aveva preso possesso il primo maggio 2005, festa di san Giuseppe Lavoratore, - rispiega i motivi del gesto, ringrazia per l'affetto, sorride quando la folle lo interrompe almeno un paio di volte, non perde una battuta, non concede nulla allo spettacolo, ringrazia ancora gli oltre centomila che affollano la piazza e via della Conciliazione, sorride e se ne va.
Che se ne sia andato perché ha sentito venirgli meno le forze lo ha detto dal primo annuncio pubblico ai cardinali, il 13 febbraio, rinuncia canonica al Soglio pontificio. Oggi è domenica, commenta le letture del giorno, e per chi ama la Bibbia, l'ultimo angelus ratzingeriano è tutto da leggere. Tra Trasfigurazione e Tabor, con un pizzico di sant'Agostino: Gesù che avrebbe potuto continuare a cibarsi di Dio, invece torna alla sua missione. Mica come Pietro che non voleva più scendere dal monte Tabor, perché voleva restare al cospetto di Dio. Ma anche quel Pietro, rimarca Benedetto XVI, pregando fu ricondotto "al cammino e all'azione". Più o meno, ma questo il Papa non lo dice, come quell'anziano cardinale bavarese che nel 2005 voleva tornare ai suoi studi e alla Germania, e finì a fare il Papa.
"In questo momento della mia vita", spiega poi papa Ratzinger, "il Signore mi chiama a 'salire sul monte', a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa - rimarca - abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede proprio questo è perché possa continuare a servirla con la stessa dedizione e e lo stesso amore con cui l'ho fatto finora, ma in un modo più adatto alle mie forze". Un discorso umanamente comprensibilissimo, dietro cui spuntano risvolti di grande rilievo per la Chiesa e anche per la perseguita unità delle chiese cristiane. Con le "dimissioni" di Joseph Ratzinger è avvenuto qualcosa di rivoluzionario perché, ha osservato il suo collega dei tempi della docenza a Ratisbona, Wolfgang Beinert, viene meno sia a livello di teologia che di dogmatica, il "matrimonio discutibile e quasi mitico tra il ministero e chi lo svolge".
La Chiesa cui pensa Ratzinger è una comunità da servire, essere papa non è un fatto protocollare, perché il Concilio ha affermato nella costituzione "Lumen Gentium" che la Chiesa è "segno e strumento dell'intera unione di Dio e della unità del genere umano". Il successore di Benedetto XVI - e i cattolici insieme a tutti gli altri cristiani - potranno far tesoro, nel difficile camino verso l'unità di questo lascito. I teologi potranno usarlo nel pensare al "ministero petrino" in rapporto alle altre chiese cristiane. Ma tutto questo potrà avvenire perché, come ha osservato il metropolita Hilarion del Patriarcato ortodosso di Mosca, "ancora una volta Benedetto XVI" ha agito "per il bene della Chiesa" e "si è mostrato coerente con la propria linea di integrità morale e di rifiuto del compromesso".