Wojtyla: dallo schiavismo alle crociate, tutti i mea culpa
03 maggio, 12:52ROMA - Dallo schiavismo alle crociate, dalla passività di fronte all'Olocausto agli ostacoli alla realizzazione delle donne, passando per le azioni contro l'unità dei cristiani, le persecuzioni di dissidenti o i peccati contro i poveri, gli ultimi, le etnie deboli. Karol Wojtyla ha caratterizzato il suo pontificato con una serie di richieste di perdono per le colpe commesse nella storia da esponenti della Chiesa. Iniziative clamorose, inedite, che gli hanno attirato critiche e consensi, all'interno e all'esterno della Chiesa. Ma chiedere perdono per Giovanni Paolo II, lungi dall'essere un atto di debolezza, è una necessità per eliminare dalla coscienza personale e collettiva tutte le forme di rancore e di violenza lasciate dall'eredità del passato e per promuovere la riconciliazione nella verità, la giustizia e la carità.
L'idea, che sarebbe confluita nel solenne "mea culpa" per i peccati della Chiesa pronunciato in San Pietro durante il giubileo del Duemila, è presente già dai primi anni del suo lungo pontificato: nell'80 partecipando a un incontro con rappresentanti di altre chiese Giovanni Paolo II ricorda con contrizione le "colpe degli uomini che ci hanno portato all'infelice divisione dei cristiani"; nell'85 in Africa chiede perdono per lo schiavismo che distrusse la vita di decine di migliaia di persone, praticato da nazioni cristiane e favorito da cristiani; nel '91, con frasi che gli guadagnarono l'affetto di molti ebrei, chiede senza mezzi termini "perdono per la passività di fronte alle persecuzioni e all'Olocausto degli ebrei". Nel '92 in America latina fa un mea culpa per le sofferenze enormi arrecate a quel continente dalla colonizzazione; nel '95, con una memorabile Lettera alle donne, condanna il fatto che anche la Chiesa sia "purtroppo erede di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna.. Se in questo non sono mancate - scrive - specie in determinati contesti, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente". Quando scrive la Lettera alle donne il Papa ha già maturato l'idea di un solenne mea culpa con cui caratterizzare il giubileo del Duemila, per portare la Chiesa nel terzo millennio cristiano purificata dalle colpe dei suoi figli e capace di apertura e dialogo con il mondo, le chiese, le altre religioni. L'idea non incontra il favore di tutto il collegio cardinalizio, parte del quale la interpreta come un segnale di debolezza da parte della Chiesa, tutto sommato inutile e ingiustificato.
Ma Giovanni Paolo II la persegue con determinazione, fino a quel 12 marzo del Duemila in san Pietro, quando con una liturgia suggestiva a nome di tutta la Chiesa chiede perdono per sei categorie di peccati che hanno coinvolto anche uomini di Chiesa e la Chiesa stessa, che "é santa, ma formata di peccatori". Le sei categorie sono i peccati commessi nel "servizio della verità", tra cui intolleranza e violenza contro i dissidenti, guerre di religione, violenze e soprusi nelle crociate, i metodi coattivi nell'Inquisizione; i peccati che hanno compromesso l'unità dei cristiani, tra cui scomuniche, persecuzioni religiose, scismi; peccati commessi nell'ambito dei rapporti con gli ebrei, tra cui disprezzo, atti di ostilità, silenzi e i pregiudizi antiebraici che favorirono l'Olocausto; peccati contro la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle altre culture, tra cui lo schiavismo e la colonizzazione; peccati contro le donne, le razze, le etnie; peccati contro la giustizia sociale, gli ultimi, i poveri. Anche dopo il giubileo sono continuate le richieste di perdono e di riconciliazione da parte di Wojtyla: tra gli ultimi episodi, il 22 giugno del 2003 a Banja Luka, il mea culpa pronunciato da Papa per i crimini commessi da cattolici ed ecclesiastici durante gli scontri etnici in Bosnia Erzegovina.