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A sei anni dalla morte Roberto Bolano diventa scrittore di culto
di Paolo Petroni
JOYCE OATES, ''STORIA DI UNA VEDOVA'' (BOMPIANI, pp. 604 - 20,00 euro - traduzione di Giuseppe Bernardi)
JULIAN BARNES, ''LIVELLI DI VITA'' (EINAUDI, pp. 120 - 16,50 - traduzione di Susanna Basso)
Esistono vari livelli in cui uno si trova a vivere, nota l'inglese Julian Barnes, che racconta prima di chi cercava nell'Ottocento di alzarsi da terra con precarie mongolfiere, poi di come lui, morta sua moglie, la compagna di oltre 30 anni, sia invece sprofondato sotto terra. Il racconto di una lunga caduta nell'abisso del dolore è anche quello autobiografico di Joyce Oates, una delle più prolifiche e importanti scrittrici americane, che ha scritto il proprio diario a seguito della morte, dopo 48 anni di vita in comune, del marito. Due libri sull'elaborazione del lutto, ma molto diversi.
Barnes, l'acclamato autore di ''Il senso di una fine'', ricorda che una mongolfiera poteva, per qualsiasi minimo imprevisto, precipitare a terra sino a conficcarsi nel terreno e così capita a chi arriva improvvisa una disgrazia e si trova costretto a affrontarla in un'epoca in cui non è più possibile, come Orfeo, scendere agli inferi per riportare indietro la propria Euridice, tanto più che poi è praticamente impossibile resistere a non guardarla, quando la si sente di nuovo viva e parlare alle proprie spalle. Perché Barnes oscilla tra il dirsi che la morte fa parte del meccanismo naturale dell'universo e il bisogno di continuare la propria conversazione interrotta con Pat, giungendo per gradi, per sofferenza (''i dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente, matematicamente tristi''), per necessità a capire che ''il fatto che una persona sia morta può voler dire che non è viva, ma non che non esiste''. Un libro intenso, mai retorico, un'elaborazione anche letteraria, sapendo come sempre che la scrittura è terapeutica, nel cercar di ritrovare un senso dell'essere, con emotività ma senza sbavature, recuperando con stile ciò che è stato e che non può andare perduto.
Scrittura terapeutica è certo anche quella della Oates, che del resto ci propone un racconto di 600 pagine (cinque volte il libro di Barnes) che è sostanzialmente diario minuzioso della propria disperazione, sino al pensiero non occasionale del suicidio, dopo aver reso conto dell'ultimissimo periodo con Ray, della sua malattia improvvisa, una polmonite, che improvvisamente si aggrava proprio quando sembrava ormai risolversi, tanto che la scrittrice era tornata a casa dall'ospedale ed era riuscita a addormentarsi. Svegliata da una telefonata, arriverà quando ormai è troppo tardi e l'amato si è spento solo circondato da estranei. Nasce da li' il senso di colpa tagliente come una lama che avverte mentre sbriga tutti i doveri seguenti un decesso e poi cercando di tener fede ai propri impegni professionali di insegnante e scrittrice, quasi usandoli per tenersi occupata, per non pensare, ma sempre la cosa più forte è la voglia di fuggire e, arrivata a casa, quella di riuscire per non sentire la grandezza e la profondità del vuoto che l'accolgono.
Via via tutto, vita, lavoro, persone, perdono senso in modo quasi totale e la Oates, senza nulla nascondere, coinvolgendoci sin nei dettagli più intimi, racconta le proprie ossessioni, le debolezze, i pensieri meschini, lo strazio più lancinante, divisa tra il desiderio di farla finita e l'istinto di sopravvivenza. Un racconto confessione, tra alti e bassi, tra il collassare del proprio io quando si trova sola che però, ''come per magia'', si ricompone quando è con altre persone.
Questo finchè passa l'inverno e, con la primavera, fioriscono i tulipani che Ray aveva piantato come sempre: la cura di quel giardino, che le permette di uscire dall'angoscia delle stanze in cui l'assillano pensieri truci, diverrà un dovere vitale e ineludibile. Così, decidendo di smettere velocemente gli psicofarmaci con cui si è aiutata, conclude: ''quando si è in un giardino è abbastanza facile essere felici. O dimenticare l'infelicità''. tanto che, come hanno ricordato alcuni maliziosi critici anglosassoni, la scrittrice s'è risposata dopo 13 mesi di vedovanza.
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