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A sei anni dalla morte Roberto Bolano diventa scrittore di culto
di Marzia Apice
ROMA - Se è vero che 'uno scrittore vale tanto quanto è capace di scrivere la verità', allora Boris Pahor, il più importante autore sloveno di cittadinanza italiana, può essere ritenuto davvero un narratore prezioso. Nella biografia edita da Bompiani, 'Così ho vissuto', a cura di Tatjana Rojc, Pahor, cento anni compiuti lo scorso 26 agosto, riprende in mano la sua vita, e la rende memoria viva e attuale grazie alla parola scritta. Attraverso una singola esistenza narrata in ordine cronologico, tra aneddoti, testimonianze, pagine edite (tratte da Necropoli, Dentro il labirinto, Piazza Oberdan, Il rogo nel porto, Una primavera difficile) e inedite di Pahor, il libro delinea la storia di Trieste e del Novecento. Raccontare se stesso per parlare di tutto un secolo significa essere capaci di cogliere nella propria vita quei tratti di universalità che permettono agli altri di identificarsi: questo fa Pahor, utilizzando un linguaggio semplice, che non sfugge però a vere immagini poetiche, a descrizioni di atmosfere e sensazioni, o ad acute riflessioni politiche, storiche e letterarie. La struttura del libro, nel quale la Rojc compie un'opera di contestualizzazione del racconto, aiuta il lettore a orientarsi nell'intricato percorso esistenziale di Pahor, così denso di fatti e incontri, così fatalmente legato ai grandi avvenimenti della Storia.
L'infanzia povera e la Grande Guerra, il fascismo e l'esperienza bellica in Africa, il Fronte di Liberazione sloveno e la deportazione nei campi di concentramento nazisti, il ritorno alla vita, l'amore per sua moglie Radoslava Premrl, l'impegno come intellettuale, il rapporto con lo scrittore cattolico Edvard Kocbek: da qui passa il racconto di Pahor, un intellettuale che è stato prima di ogni altra cosa un uomo capace di vivere intensamente ogni istante del suo tempo: mai un eroe (è lui stesso a dirlo) ma un individuo che ha sempre seguito una 'sua strada', e si è trovato, suo malgrado, a prendere di fatto parte alla Storia. Anche un vagabondo però, non solo per i tanti viaggi, ma 'in senso psicologico, con l'animo': vagare ('quell'anarchia che sottende tutta la mia vita', dice Pahor) diviene strumento per definire e cercare se stesso, per risolvere la questione dell'identità che fin da bambino lo affligge. Doversi chiedere se essere sloveno, italiano o cittadino del mondo implica una scelta che in ogni caso ha il sapore della giustificazione: il senso di non appartenenza, l'umiliazione subita di non aver il diritto di 'essere' quello che si è e di parlare la propria lingua, è ciò che da Trieste lo fa partire, ma anche quello che lì lo fa ritornare. Sembra come se quella città, incrocio di tante culture, e per lui culla di ricordi dolorosi e vivificanti, fosse il porto da cui allontanarsi ma a cui necessariamente anelare per trovarsi ancora una volta a casa. In questa biografia c'è questo, e molto altro: Pahor è stato un 'giovane senza gioventù' e poi un adulto che si è riconquistato la propria dignità grazie alla parola e al suo valore di testimonianza. Da qui infatti egli ha potuto guardare con occhi, se non sereni, di certo più distanti, le grandi sofferenze subite, provando a raccontare, attraverso cento anni di vita, il conflitto tra bene e male, tra verità e menzogna.
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